Se nel nostro contemporaneo guardiamo alla nostra lingua e ai modi di dire, ci rendiamo immediatamente conto che il “buco”, il “foro”, ha assunto nel tempo alcuni significati davvero negativi. Spesso tali significati sono legati a oggetti del quotidiano, perlopiù preziosi quando non bucati, o hanno più o meno un riferimento a qualcosa di avverso, sfortunato, negativo.
“Non valere un soldo bucato”, “Non avere un soldo bucato”, “Non guadagnare un soldo bucato”: tutte queste espressioni, riferite alle monete, evidenziano come proprio il “foro” sia ciò che rende il soldo privo di valore, poiché solo la moneta integra ha un valore e può essere merce di scambio.
Allo stesso modo, “avere le tasche bucate” oppure “avere le mani bucate”, indica una propensione della persona a spendere e quasi ad attrarre su di sé la sfortuna, perché incapace di pensare al futuro, di risparmiare ed essere accorta.
Le calze bucate, in un sogno, indicano chi è stato solo apparentemente baciato dalla sfortuna, mentre avere a che fare con un recipiente bucato significa aver compiuto azioni troppo impulsive.
Per quale motivo, e quando, il “buco” accentrò su di sé questa negatività?
Nell’impossibilità di trovare, al momento, una spiegazione soddisfacente, bisogna evidenziare che esiste una “corrente” contraria, secondo la quale una moneta bucata sarebbe un ottimo portafortuna.
In Cina alcune monete antiche sono coniate con al centro un buco a sezione quadrata: esso indicherebbe la stabilità materiale, quindi la moneta sarebbe un amuleto importante per chi desidera mantenere la propria ricchezza.
Ai “soldi bucati” e al loro strano significato di porta fortuna o sfortuna ha dedicato una novella anche Luigi Capuana: potete leggerla qui di seguito (il testo è reperito su Wikisource).
Il soldo bucato
di Luigi Capuana
C’era una volta una povera donna rimasta vedova con un figliolino al petto. Era di cattiva salute, e con quel bimbo da allattare poteva lavorare pochino. Faceva dei piccoli servigi alle vicine, e così lei e la sua creatura non morivano di fame.
Quel figliolino era bello come il sole; e la sua mamma, ogni mattina, dopo averlo rifasciato, lavato e pettinato, un po’ per buon augurio, un po’ per chiasso, soleva dirgli:
– Bimbo mio, tu sarai barone!
Bimbo mio, tu sarai duca!
Bimbo mio, tu sarai principe!
Bimbo mio, tu sarai Re!
E ogni volta che lei gli diceva: tu sarai Re, il bimbo accennava di sì colla testina, come se avesse capito.
Un giorno si trovò a passare proprio il Re, e sentito: Bimbo mio, tu sarai Re, la prese in mala parte, perché non aveva avuto ancora figliuoli e ne era accorato assai.
– Comarina, – le disse – non vi arrischiate più a dire così, o guai a voi!
La povera donna, dalla paura, non disse più nulla. Però quel figliolino, ora che la sua mamma stava zitta, ogni mattina, appena rifasciato, lavato e pettinato, si metteva a piangere e strillare.
Lei gli ripeteva:
– Bimbo mio, tu sarai barone!… Tu sarai duca!… Tu sarai principe!…
Ma il bimbo non si chetava. Talché una volta, per prova, tornò a dirgli sottovoce:
– Bimbo mio, tu sarai Re!
Il bimbo accennò di sì colla testina, come se avesse capito, e non strillò più.
Allora la povera donna si persuase che quel figliolino doveva avere una gran fortuna; e temendo la collera del Re, già pensava di mutar paese.
Intanto, poiché il figliuolo era spoppato, quando le capitava di fare qualche servizio, pregava una vicina:
– Comare, tenetemi d’occhio il bambino; vado e torno in due minuti.
Un giorno le accadde di tardare. La vicina era seccata di tenere in braccio quel cattivello che piangeva perché voleva la mamma. In quel punto comparve un cenciaiolo:
– Cenci, donnine, cenci!
– Lo volete questo cencio qui?
– Se ci si combina, lo prendo.
– Ve lo do per un soldo.
Il cenciaiuolo le tolse il bimbo di braccio e le mise in mano un soldo bucato.
A quella scena lei e le altre vicine presenti ridevano: il cenciaiuolo in questo mentre svoltava la cantonata e spariva. Corri, cerca, chiama… L’avete più visto?
Figuriamoci che pianto, quella povera mamma, quando apprese la sua disgrazia!
Corse subito dal Re:
– Giustizia, Maestà!… Mi han rapito il bambino!
– Bimbo mio, tu sarai Re! – le rispose il Re facendole il verso, per canzonarla.
E la mandò via, tutto contento che quel malaugurio per la sua discendenza fosse sparito.
Gli occhi della povera donna parevano un fiume. Andava attorno tutta la giornata, fermando la gente:
– Buona gente, incontraste per caso il cenciaiuolo che mi ha rubato il mio bambino?
Le persone, che non ne sapevano nulla, la prendevano per matta e le ridevano in viso.
Quel giorno della disgrazia, la vicina le aveva dato il soldo bucato messole in mano dal cenciaiuolo; ma la povera donna, dalla gran rabbia che aveva, lo buttò via.
La mattina dopo, apre un cassetto… il soldo bucato era lì.
– Soldaccio maledetto! Non ti voglio neppur vedere!
E lo buttò nuovamente via dalla finestra.
Ma la mattina dopo, torna ad aprire quel cassetto e che vede? Il soldo bucato.
Richiuse il cassetto con stizza.
– Fossero almeno dieci lire…! Mi comprerei uno straccio di veste!
Non avea finito di dirlo, che sentì lì dentro un suono di soldi rimescolati. Stupita, riapre. Pareva che il soldo avesse figliato. Oltre a quello, c’erano lì tanti soldi, da fare giusto dieci lire.
Da allora in poi, quando avea bisogno di denaro, le bastava che dicesse:
– Soldino mio, vo’ cento lire, vo’ mille lire!
Le cento lire, le mille lire erano subito lì.
La buona donna non si teneva questa fortuna per sé sola; faceva spesso la carità a tutte le persone bisognose al par di lei, ed era già diventata una benedizione del cielo.
Ma quel bene lei lo faceva sempre col pensiero al figliolino perduto:
– Che le importava di tanta fortuna, senza il suo figliolino? E sperava sempre che, un giorno o l’altro, il cielo l’avrebbe consolata.
In quel tempo il Re ebbe il capriccio di comprarsi un magnifico cavallo. Conchiuso il negozio, andò per prendere il denaro dallo scrigno ove solea tenerlo riposto, e si accorse che mancava una bella somma.
Appostò lì due guardie per acchiappare il ladro; e, passati alquanti giorni, tornò a guardare: mancava un’altra bella somma!
Si mise in agguato lui stesso; cominciava a sospettare dei suoi Ministri.
Una mattina, ecco una voce nell’aria, lontana, lontana:
– Soldino mio, vo’ mille lire!
E, subito, un rimescolìo nello scrigno, come se qualcuno vi prendesse quattrini a manate.
Apre in fretta in fretta… Le mille lire mancavano, ma lì dentro non c’era nessuno!
– Come andava questa faccenda?
Il Re ci perdeva la testa.
Però, benché fosse un po’ avaro, gli dispiaceva di più dover morire senza figliuoli. Se la prendeva colla Regina, come se la colpa fosse stata di lei, e la maltrattava:
– Non era buona a fargli un figliuolo, neppure di terra cotta!
La Regina, indispettita, gli fece colle sue mani un bel puttino di terra cotta.
– Ecco, se era buona!
Tutti accorrevano al palazzo reale per vedere quel puttino di terra cotta, che era una meraviglia, e vi andò anche quella povera donna.
– Oh Dio! È tutto il mio bambino!… Ma non era così che ti volevo Re, figliolino mio!
E si mise a piangere.
Il Re, a quelle parole, montò in furore. Diè un calcio al puttino di terra cotta e lo ridusse in mille pezzi.
Alla povera donna parve di vedersi squarciare sotto gli occhi il figliolino perduto. Ma che poteva dire a Sua Maestà? Dovette ingozzare anche quell’amarezza, e tornarsene a casa zitta zitta.
Intanto nello scrigno del Re i quattrini continuavano a mancare; e sempre quella voce nell’aria, lontana lontana:
– Soldino mio, vo’ cento lire, vo’ mille lire!
E quanti diceva la voce, tanti il Re ne sentiva prendere dalla mano del ladro invisibile.
Il Re mise le sue spie per scoprire di chi fosse quella voce: e un giorno le spie gli condussero dinanzi ammanettata la donna del bambino rubato:
Era lei che aveva detto: “Soldino mio, vo’ cento lire!”.
Il Re non volle neppure ascoltare la povera donna, che voleva raccontargli come stesse la cosa, e la fece gettare in un fondo di carcere.
Ma da quel giorno egli non ebbe più pace.
Voleva andare a letto? E gli strappavano le coperte:
– Maestà, non si dorme!
Chi era? Non si vedeva nessuno.
Si sedeva a tavola per mangiare? E gli portavano via il piatto:
– Maestà, non si mangia!
Chi era? Non si vedeva nessuno.
Se durava un altro po’, il Re moriva d’inedia. Perciò mandò a consultare un vecchio Mago.
Il Mago (che poi era quel cenciaiuolo che avea rapito il bambino per proteggerlo) rispose soltanto:
– Bimbo mio, tu sarai Re!
Visto che il destino era quello, e non volendo morire d’inedia, il Re cominciò dallo scarcerare la povera donna, e tornò a mandare dal Mago:
– Come rintracciare il bimbo? Lo avea rapito un cenciaiuolo e non se ne sapeva più notizia.
Il Mago rispose:
– Raccatti i cocci di quel puttino di terra cotta e li saldi insieme collo sputo.
Il Re, sebbene di mala voglia, raccattò i cocci del puttino e li saldò collo sputo.
– Ed ora?
– Ed ora – rispose il Mago – prepari una bella festa e faccia così e così.
Il Re fece dei grandi preparativi, poi, secondo le istruzioni del Mago, mandò a chiamare la mamma del bimbo a palazzo reale e la fece sedere a lato della Regina.
Il puttino di terra cotta bello e saldato si vedeva collocato nel mezzo del salone e, attorno attorno, ministri, principi, cavalieri in gran gala che aspettavano.
Quando fu l’ora, s’intese nella via:
– Cenci, donnine, cenci!
A questo grido il puttino di terra cotta scoppiò, e ne usci fuori un bel giovinotto fra un gran rovesciarsi di monete, che ruzzolavano da tutte le parti.
Il Re, contento anche perché riacquistava tutti i suoi quattrini, voleva abbracciarlo come un figliuolo; ma quello corse prima dalla sua mamma e non sapeva staccarsela dal petto:
– Bimbo mio, tu sarai Re!
Ed era già Reuccio, poiché il Re lo adottava!
Qui entrò una guardia e disse:
– Maestà, c’è di là un cenciaiuolo; rivuole il suo soldo bucato.
Il Re non ne sapeva nulla; ma la povera donna rispose subito:
– Eccolo qui.
Sentita la storia di quel soldo, il Re pensò ch’era meglio tenerselo per sé. Andò di là, bucò un altro soldo e diede questo in cambio di quello al cenciaiuolo.
Ma gliene incolse male.
La prima volta che disse:
– Soldino mio, vo’ mille lire!
Invece di mille lire furono mille nerbate, che lo conciarono per le feste, tanto che morì.
– Bimbo mio, tu sarai Re!
E si era avverato.
Stretta è la foglia, larga è la via,
Dite la vostra, ché ho detto la mia.
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